È un paradosso che fa tremare la coscienza: i bombardamenti non come segno di distruzione cieca, ma come possibile principio di liberazione.
Per chi ha conosciuto l’orrore della guerra e l’angoscia dei rifugi, desiderare un attacco può sembrare assurdo. Eppure, per chi vive sotto un regime che opprime e annienta da quasi mezzo secolo, anche l’atrocità di un conflitto può apparire come l’unica speranza. In questo scontro tra due orrori — la violenza della guerra e la violenza del potere — c’è chi, con dolore, sceglie di sperare nella prima per mettere fine alla seconda.
Chi è Ramtin Ghazavi
Ramtin Ghazavi, rinomato tenore iraniano e unico cantante lirico del suo Paese ad aver calcato il palco del Teatro alla Scala di Milano, guarda con dolore e preoccupazione alla situazione del suo Iran. “L’attacco di Israele è l’unica strada per liberarci dal regime,” afferma, paragonando l’azione militare a un intervento chirurgico rischioso ma necessario.
Ghazavi sa bene cosa significhi vivere sotto le bombe. Nato nel 1980 a Esfahan, ha vissuto l’infanzia durante il conflitto Iran-Iraq. “Conosco la guerra, le bombe, i rifugi, le file per un po’ di latte,” racconta. Ed è proprio questa esperienza diretta che gli conferisce una voce unica e spesso scomoda nel dibattito pubblico, soprattutto in Occidente.
Da oltre vent’anni ha lasciato l’Iran, ma da dieci anni non può più farvi ritorno. La sua patria, dice, “è uno dei paesi più ricchi al mondo, ma con la popolazione tra le più povere”. Un paradosso che attribuisce a un sistema di potere che definisce “un regime totalitario che tiene in ostaggio 80 milioni di persone”. In Iran vivono ancora i suoi genitori e molti amici, motivo per cui ogni parola che pronuncia è carica di emozione e consapevolezza del rischio.
“La gente non sa come andare avanti, come procurarsi da mangiare. I diritti umani sono calpestati ogni giorno da 47 anni”, denuncia. E si dice sconcertato quando, soprattutto in Europa, sente giudizi sull’operato di Israele pronunciati senza conoscere davvero la realtà iraniana. “Non è un’aggressione folle come quella della Russia contro l’Ucraina — chiarisce — questa crisi affonda le radici nel tempo, e non si tratta solo della questione nucleare”.
Alla Prima della Scala del 2023, Ghazavi ha voluto lanciare un messaggio forte e chiaro indossando una maglietta con la scritta “Donna, vita, libertà”, lo slogan delle proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini. Subito dopo si è cambiato e ha cantato nel Don Carlo di Verdi, testimoniando come arte e impegno civile possano convivere.
Secondo Ghazavi, tutti i tentativi di cambiamento dall’interno dell’Iran sono falliti. “Ci sono stati attivisti coraggiosi, movimenti di protesta, appelli accorati, ma il regime ha reagito sempre con brutalità e repressione. È un potere senza pietà.”

La speranza di un futuro migliore
Oggi però qualcosa sembra essersi incrinato. L’attacco israeliano ha colpito con una forza inaspettata. “Il regime è molto indebolito. Iniziano a temere una ribellione popolare e per questo stanno dispiegando le camionette anti-sommossa nelle piazze. Ma è difficile sapere cosa succederà.”
Il desiderio del tenore è che l’azione israeliana non si fermi a colpire le basi periferiche del potere, ma miri al cuore del sistema. “Noi diciamo che deve cadere la testa del serpente. Solo allora il popolo troverà la forza per ribellarsi e ricostruire un futuro libero.”
Con parole cariche di dolore ma anche di speranza, Ghazavi osserva la situazione come si guarda un familiare in pericolo su un tavolo operatorio: “Sai che potrebbe morire, ma sai anche che non ci sono alternative. È la legge della natura.”
Non è una presa di posizione ideologica, spiega, ma il grido di un uomo che ama la sua terra e che sogna un futuro diverso per il suo popolo. “Solo chi ha vissuto l’oppressione e la guerra può comprendere il senso profondo di certe scelte. Io parlo con il cuore, ma anche con l’esperienza di chi sa cosa significa sopravvivere in mezzo alle macerie.”
Non sta a noi giudicare le persone o le intenzioni, ma come cristiani non possiamo che riconoscere nella guerra e nei regimi totalitari due manifestazioni del male che l’uomo può infliggere al proprio simile.
Entrambi sono frutti di una logica disumana che calpesta la dignità e la vita, spesso innocente, di uomini, donne e bambini. Per questo invochiamo vie di giustizia e di dialogo che portino alla libertà senza spargimento di sangue, alla verità senza vendetta, alla pace senza imposizione.
Uniti nella preghiera, chiediamo a Dio che cessi ogni forma di violenza, che siano sanate le ferite dei popoli, e che la pace di Cristo regni nei cuori degli uomini e tra le nazioni. Solo così il mondo potrà risorgere dalla notte dell’odio e aprirsi all’alba della riconciliazione.