La distruzione prodotta dalla guerra
Non sempre la guerra inizia con un’esplosione. Spesso comincia con una parola, con un discorso solenne, con un appello accorato trasmesso in diretta.
Le bombe vengono dopo. Prima ci sono le emozioni manipolate, i simboli agitati, i nemici costruiti. Ogni conflitto nasce in una mente, ma cresce nei cuori delle folle, sedotte dall’illusione di combattere per una causa giusta. La guerra, oggi, è anche un prodotto culturale: viene confezionata come un grande racconto, e venduta come un dovere morale.
Ogni guerra, prima di essere combattuta con le armi, viene combattuta con le parole. Chi ha il potere di decidere un conflitto, sa bene che per muovere le masse deve prima persuaderle. La guerra, infatti, non può essere presentata come distruzione nuda e cruda: dev’essere travestita da impresa eroica, da missione morale. E così il nemico diventa un mostro, il confronto militare si trasfigura in lotta tra il bene e il male, e la sofferenza viene sublimata in sacrificio necessario.
Come nel teatro classico, ogni elemento viene costruito per generare una risposta emotiva. Il linguaggio è studiato per agitare il cuore più che la ragione: si evocano minacce esistenziali, si denunciano atrocità (a volte vere, troppo spesso inventate o ingigantite), si invoca l’onore, si agita lo spettro dell’umiliazione. E quando le parole non bastano, arrivano le immagini: video, foto, testimonianze selezionate con cura. La realtà viene montata e smontata come una scena cinematografica.
In questa narrazione, la guerra non appare più come una scelta tragica e disperata, ma come l’unica via percorribile. Ogni compromesso viene bollato come debolezza, ogni tentativo di dialogo come tradimento. Il comandante — sia esso uno Stato, un’alleanza militare, o un blocco ideologico — assume il ruolo del salvatore, di colui che agisce per la salvezza collettiva. E ogni sua mossa è legittimata da questa aureola morale, anche se concretamente porta morte e distruzione.
Il risultato è che la guerra diventa un racconto di redenzione. Ma questa redenzione, puntualmente, non arriva mai. Al suo posto resta un’eredità fatta di orfani, macerie, ferite invisibili e rancori tramandati da una generazione all’altra.
Come in un rito antico, la guerra chiede vittime. Ma, mentre nel passato erano offerte simboliche, oggi le vittime sono vere: bambini dilaniati, donne stuprate, civili affamati, città ridotte in polvere.
La propaganda bellica non è una novità moderna, ma oggi ha acquisito una potenza senza precedenti. I social media, le televisioni, i giornali, i discorsi ufficiali diventano strumenti di martellamento continuo. L’opinione pubblica viene guidata, orientata, scolpita giorno dopo giorno, finché il dubbio scompare e la guerra appare desiderabile, persino necessaria.
Chi dissente viene facilmente isolato, etichettato come codardo, nemico interno, o manipolato dalla propaganda avversaria. La semplificazione è l’arma più pericolosa: ridurre un conflitto complesso in uno scontro binario — noi contro loro — permette di zittire ogni voce intermedia.
Eppure, la storia insegna che questa dinamica conduce quasi sempre a disastri annunciati. I leader, convinti della bontà assoluta della propria causa, finiscono spesso per perdere il senso del limite. Ogni nuova escalation viene giustificata in nome di un traguardo sempre più lontano, sempre più irraggiungibile.
Quando la guerra termina — se mai davvero termina — il silenzio che resta è fatto di assenza. Il fragore delle bombe lascia spazio ai pianti sommessi. Le frasi solenni dei proclami si perdono tra le macerie. E i popoli, quelli che erano stati infiammati dai discorsi, devono ora ricostruire le loro vite, sepolte sotto le bugie.
Le guerre moderne non hanno vincitori autentici. Hanno solo perdenti: chi ha perso la vita, chi ha perso una casa, chi ha perso la fede nella giustizia. Eppure, l’ingranaggio si ripete. Le stesse narrazioni vengono rimesse in circolo per nuove guerre future. Cambiano i nomi, le bandiere, le lingue. Ma il copione è sempre lo stesso.
C’è solo una via per resistere a questa manipolazione: tornare alla verità delle cose, smontare le parole, leggere la realtà senza i filtri della retorica. Studiare la storia, riconoscere gli schemi, comprendere che dietro ogni appello alla guerra si nasconde quasi sempre un interesse, un calcolo, una strategia di potere.
Ogni cittadino, ogni credente, ogni essere umano ha il dovere di mantenere acceso il lume del discernimento. Non lasciarsi trascinare dal fiume delle emozioni indotte, ma chiedersi sempre: chi mi sta parlando? Perché? A chi giova?
Solo così potremo, forse, evitare che il futuro si trasformi ancora una volta in uno scenario di sangue mascherato da giustizia.